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Libertà e Democrazia. Storia di un murales che non c’è più.

Le persone sono i motori della nostra società. Le persone vere. Quelle che hanno creduto e ancora credono negli ideali di Libertà e Democrazia.

Solo così è possibile spiegare l’enorme affluenza alla conferenza “Libertà e democrazia – Per non dimenticare i valori della Resistenza” che l’ANPI ha organizzato in collaborazione con altri organismi ad essa vicini nella giornata di sabato 29/11. Una giornata di forte testimonianza storica e civica grazie alla proiezione del filmato “La scelta” e all’intervento di Mauro Begozzi ed in particolar modo del prof. Franco Bellingeri e alla sua presa di posizione forte, critica, civica e colta nei confronti della cancellazione del murales sulla Resistenza delle Scuole medie Bassetti da parte dell’Amministrazione Colombo.
Finchè ci saranno, ieri e oggi, uomini e donne così, noi continueremo a crescere e a sperare di vivere in un mondo migliore.
IxS


Di seguito il discorso del prof. Franco Bellingeri

Confesso di aver avuto qualche perplessità ad accettare l’invito ad intervenire all’incontro mettendomi da questa parte del tavolo (e qualche perplessità mi rimane tuttora nel momento in cui mi sono accomodato e mi accingo a parlare).

La perplessità non nasce da una valutazione diversa dell’accaduto e neppure posso dire che la perplessità derivi dalle mie accresciute difficoltà di fonazione o dai condizionamenti di un’autonomia quotidiana sempre più ballerina. La perplessità è alimentata da un sentimento che ha ispirato la mia uscita di scena dalla scuola (dalla comune s’intende, per mantenere la metafora teatrale) e che definirei: il pudore del pensionato. C’è una tentazione costante in chiunque ha rivestito una funzione pubblica ed è quella dell’amarcord. Fioccano, quando ci tocca di parlare di qualcosa che è stata la nostra quotidianità per anni, le espressioni del genere: “ai miei tempi…”, “ricordo che…”, “non bisogna dimenticare…”. In un periodo come l’attuale in cui, come dice Serrat, non c’è spazio per gli anziani o, come sostiene qualcuno che va per la maggiore, occorre rottamare tutto, il silenzio può essere una forma di pudore per non intaccare la forza e la genuinità di una protesta e l’originalità di un modo di porsi di fronte ad un abuso di potere, quale, diciamolo, è stato la cancellazione del murales.

Ma per quanto pensionato e parkinsoniano, oltre che ex-preside, rimango una persona di Sesto profondamente toccata da una scelta che io reputo viziata da ignoranza e presunzioneè la mia persona tout court a reagire; la mia persona non sarà importante ed avrà mille difetti, ma rimane una persona ovvero, come nell’origine del termine in Tertulliano (II/III sec.d.C.) il soggetto di un diritto, o meglio ancora, come nella definizione dataci dalla Scolastica riprendendola da Severino Boezio (V/VI sec.), un soggetto che si individua in un diritto comune (“rationalis naturae individua substantia”). E a questa persona, al mio “esprit”, per usare la parola di un autore a me caro e cioè Emanuel Mounier, è chiesto anche da altri di intervenire, di non lasciare che una mano cancelli nel silenzio il murales.
Il pudore, però, riaffiora: non è più il ritirarsi indietro di un pensionato che capisce che ad altri è affidato il compito di interpretare i bisogni della gente; diviene il pudore di un ex-preside che conosce già le critiche che potrebbero essere fatte al suo intervento e che potrebbero limitare il significato affettivo e ragionato di una presa di posizione dovuta in quanto imposta dalla propria coscienza. Essendo stato preside per più di vent’anni a Sesto, qualcuno direbbe: “Certo che difende l’idea del murales: era lui il preside quando l’hanno fatto!”; “Certo che sostiene la protesta di quanti ne rivendicano il valore di testimonianza civile, storica e politica: quelli erano gli anni del predominio di una cultura di sinistra che aveva fatto della Resistenza un proprio simbolo intoccabile, erano gli anni, aggiungerebbe quel qualcuno, della convergenza su questa cultura delle istituzioni… un cammino insieme per Sesto!”. Proprio per questo pudore a cui prima accennavo (non sono stato l’unico preside, né sarò l’ultimo e del resto non sono stato quello che vi è rimasto più a lungo: il preside Mamante Rabozzi mi ha superato d’un anno ed il suo record sarà imbattuto come è imbattuto in Italia quello dei 45 anni complessivi delle due presidenze), detto solamente come premessa necessaria che quella convergenza di obiettivi, quell’andare insieme era un sogno, un’utopia concreta, se mi si permette l’ossimoro, la mia breve e semplice analisi prenderà altre strade.

Non parlerò di 25 aprile e di Liberazione, di partigiani e di Resistenza e neppure di protagonisti e fatti storici: altri l’hanno fatto e lo faranno, anche in questa sede con più rigore e con più competenze, oltre che a maggior diritto. Se ne parlerà ma in altri scenari; mi interessa stasera, con tutta la modestia del caso e dando un valore orientativo e non categorico alle parole, fare un discorso etico e pedagogico, etico in quanto pedagogico e pedagogico in quanto etico. E non parlerò della media Bassetti e di quegli anni dei murales, dei laboratori, della scuola-orchestra, dei ciceroni in erba ecc. Vorrei, vorrei almeno tentare di condurre una riflessione sui temi a cui ho in precedenza accennato e che riguardano direttamente i principi di una comunità, compiendo un’operazione di decostruzione di un episodio, sì di un episodio perché non saprei nemmeno come definirlo diversamente, che non ha rilevanza alcuna rispetto ai grandi fatti evocati oggi, che non ha l’importanza e la pregnanza di quelli che fanno parte della nostra storia, che non ispira neppure il calore emotivo ed emozionale che pervade le testimonianze del bel filmato di Tosi: vorrei parlare dell’episodio della cancellazione del murales analizzandolo (decostruzione è un termine volutamente derridiano) in uno scenario di educazione civica o meglio di educazione alla civitas. Per questo motivo parlavo in precedenza di etica e pedagogia; preferisco pertanto utilizzare l’espressione “educazione alla civitas” sia per i riferimenti agostiniani sia per sottolinearne il valore dinamico di sviluppo che la dicitura classica invece, quella che compariva sulle pagelle ovvero “Storia ed educazione civica”, non prospetta dato che sembra limitarne il raggio d’azione didattica ad un’impropria riduzione nei termini di contenuti e dati di una materia.
Il sociologo ed epistemologo Edgar Morin (93 anni) in un libricino uscito quest’anno e non ancora tradotto in italiano scrive: “la tendenza tecno-economica sempre più potente e pressante porta l’educazione all’acquisizione di competenze socio-professionali a danno delle competenze esistenziali che possono darci una rigenerazione della cultura e l’introduzione di temi vitali nell’insegnamento”.
Partiamo allora dal fatto, dall’accaduto come dicevo all’inizio. Abbiamo un atto (la cancellazione del murales) compiuto nell’esercizio esibito di un potere da parte della Giunta Comunale. Una   mano di vernice ha cancellato un’immagine ed una scritta ovvero un “testo” (textus) opera di allievi preadolescenti di una scuola media; la mano di vernice non è come la gomma che elimina la traccia lasciata dalla matita; la gomma corregge, libera lo spazio per modifiche, più raramente rinnova la pagina per nuovi testi, ma c’è un aspetto che voglio far notare: la gomma è uno strumento a disposizione dell’autore del testo o comunque di qualcuno, il maestro, che cancella per permettere all’autore di esprimersi. L’etimo di cancellare richiama l’azione di tirare delle righe a mo’ di cancelli (“ingraticolare”) sopra uno scritto o un disegno per renderlo illeggibile, per cassarlo. La mano di vernice che va a ricoprire il murales non è solo cancellazione: la cancellatura elimina qualcosa di cui si vuole però riconoscere l’esistenza (o meglio l’essere esistito).

Gli amministratori hanno parlato di rimozione, ma la rimozione implica un luogo dove si ripone ciò che viene rimosso, magari un angolo recondito, magari un buco nascosto in modo tale che non venga ritrovato: in questo caso la volontà manifesta e manifestata è stata quella di cancellarne l’esistenza. Io parlerei di annullamento; il messaggio in breve era ”facciamo come se non ci fosse mai stato un murales”. Anche simbolicamente nella forma che ha assunto l’atto della cancellazione del murales, continuiamo pure a chiamarla così, si configura come qualcosa di più grave (ricordiamolo: nessun avviso alla scuola o da parte della scuola, una ditta di imbianchini inviati anonimamente da un’autorità che non si fa vedere, nessun dialogo con chi cerca di evitare la cancellazione o di avere spiegazioni…). La forma non sarà sempre la sostanza di un’azione, ma qualche volta, come in questo caso, lo è. Più che una censura la mano di vernice vuole essere l’annullamento dell’esistenza del murales, né disconosce di fatto, al di là dei giri di parole su prassi educative e valutazioni artistiche, il diritto all’esistenza. Mi viene in mente che le prime censure librarie conseguenti all’invenzione della stampa riguardavano nello specifico la persona dello stampatore: ad esempio il suo stato di eretico (“Indice dei libri proibiti” 1599) imponeva la messa al bando di tutta la sua produzione, compresa quella riguardante argomenti non religiosi.

Si deve, quindi, pensare che secondo la Giunta Comunale gli autori del murales siano degli eretici? Penso che non sia voluta giungere a tanto, ma di fatto se ne elimina il testo (pittura e scritto) come diseducativo e non esprimente il pensiero dell’auto-nominatosi proprietario del muro su cui è stato dipinto il murales. È, come minimo, un atto di presunzione, oltre che come vedremo poi di superficialità di valutazione. La questione è semplice; il murales è stato il frutto di un’azione libera, autorizzata dall’amministrazione comunale in carica nel 1995 (l’“imprimatur” civico) che non ha la pretesa di porsi come oggetto di culto storico e che costituisce però una libera testimonianza civica. Non è storia, ma cultura della storia (Edgar Morin distingue tra cultura ovvero l’insieme delle credenze e dei valori caratteristici di una comunità e civiltà ovvero il processo attraverso cui si trasmettono da una cultura all’altra le tecniche, i saperi e le scienze). Il murales è stato un atto libero che sancisce la libertà d’espressione il cui unico limite è la libertà degli altri; il diritto finisce, come Kant insegna, là dove inizia il diritto dell’altro.

In questo caso la gomma è stata utilizzata dalla Giunta per annullarne l’esistenza, prevaricando il diritto dell’autore come se le parole di quest’ultimo non avessero diritto di essere ascoltate. È, a mio parere, e forse non solo simbolicamente, una forma di violenza che non trova giustificazione alcuna. È indisponente colui che dice: “i muri della scuola appartengono al comune che, quindi, ne può disporre come vuole” dimenticando che quegli adattamenti appartenevano ad un progetto scolastico e comunale; è prepotente colui che dice: “il murales appartiene ad una cultura che non è la mia, io oggi amministro il comune e rimuovo tutti i segni di quella cultura” presumendo che le sue convinzioni siano una verità assoluta, per il solo fatto di essere stato gratificato dal voto popolare.

In fondo tutto si riassume in una domanda: “chi è il comune?”; “chi e non in questo caso che cosa”; ognuno ne è una parte, non il tutto, neanche la massima autorità comunale può aspirare ad esserne l’interprete unico. Il comune di Sesto Calende non era l’amministrazione che patrocinò il murales, ma non è neppure l’amministrazione che l’ha cancellato. L’unica differenza è che chi l’autorizzò garantì l’esercizio di un diritto, senza ledere il diritto di alcuno, anche per il futuro; chi l’ha distrutto, invece, misconosce un diritto, … anche nel futuro.

La cancellazione del murales, quindi, se non è una violenza è un abuso di potere; Francois Bayrou definisce così l’abuso di potere: “ un abuso di posizione dominante. L’esercizio del potere inteso come senza paracarri, senza limiti, tanto meno quello dei principi”.

Nell’atto che analizziamo individuo tre destinatari: un oggetto ovvero la “cosa” (il murales), un soggetto ovvero l’autore della “cosa“ (la scuola) ed un ambito ovvero la cultura (la cultura della memoria). Remo Bodei in un bel libro “La vita delle cose” propone la distinzione tra oggetti e cose dove le cose sono ciò verso cui si ha un investimento affettivo, mentre gli oggetti sono solo ciò che si contrappone ai soggetti. La mancata distinzione tra oggetto e cosa provoca di fatto fraintendimenti anche nel senso comune. Ricorda Bodei che l’italiano “cosa” è la contrazione del latino “causa” ossia di ciò che riteniamo “talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa” (pag.12).

Ebbene il murales è diventato una “cosa” che è l’equivalente concettuale della parola latina “res” o del greco “pragma”; per molti, per coloro che ne hanno vissuto la nascita e ne hanno condiviso la storia ha acquistato con gli anni nuovi significati . Le cose ci parlano ed il murales è una “cosa” e vive, al di là del suo valore artistico su cui si può discutere ma senza banalizzazioni, delle letture che ne hanno fatto centinaia di studenti, delle “traduzioni personali” che ne hanno tratto genitori, associazioni, insegnanti ed allievi. Potrà piacere o meno, ma è quello che è stato descritto al generale Daverio che commentava l’evento, perché quella era per lui la “cosa” visto che gli occhi non lo assistevano più; è quello che continuiamo a vedere anche se è stato cancellato, è quello che si ripropone negli striscioni e nei disegni dei bambini. Mi ha colpito, in questo senso, la testimonianza di una ragazza che raccontava che cosa significasse per lei vedere tutti i giorni dal cavalcavia il murales, anche se non era stata allieva della scuola in quegli anni e, forse, se non mi sbaglio neppure allieva della Bassetti. La cancellazione del murales colpisce la cosa-murales che appartiene alla storia di molti sestesi; la cancellazione è una violenza sulla cosa-murales di diverse persone a Sesto che considerano il murales “res publica: “res publica ovvero non solo una semplice proprietà comune (e fra l’altro la decisione della giunta comunale sembra voler mettere in dubbio anche questa semplice asserzione), bensì “l’essenziale” di ciò che riguarda tutti, che merita di essere discusso in pubblico, fonda il senso di appartenenza dei cittadini ad una comunità” (pag. 12).

Per fare due facili esempi di che cosa è in questo senso una “cosa” basta pensare al primo disegno del figlio o della figlia per un padre o una madre o a che cosa rappresenta anche in età avanzata per una persona un giocattolo della propria infanzia conservato gelosamente o tramandato ai figli.

Mi sono proposto di non affrontare il problema dal punto di vista storico e politico; faccio fatica a mantenere questo assunto metodologico, ma faccio ancor più fatica a tenere fuori dal gioco la mia esperienza nella scuola: trent’anni da preside dall’età di trent’anni ai sessanta che sarebbero durati più a lungo se non si fosse messo di mezzo il colonnello Parkinson. Cercherò allora di ridurre questa dimensione personale a una condizione di fatto, quella che oggi viene chiamata la situazione di un “post”: una delle tante parole nuove raccolte e commentate in “Tempi strani” da Ilvo Diamanti; nel caso specifico: un post-scolastico.

Tornando alla rimozione del murales, come c’è un oggetto dell’azione, quello che ho definito la “cosa-murales”, c’è anche un soggetto destinatario in concreto dell’azione. Mi sembra evidente, difatti, che, oltre al significato politico che la cancellazione riveste e vuole rivestire (ed altri lo analizzeranno perché non se ne può prescindere), nell’azione si configura un attacco, uno svilimento della scuola, nonostante il mascheramento delle critiche dietro la retorica dei luoghi comuni sulle difficoltà dell’insegnamento oggi e delle buone intenzioni disattese dai risultati. Parlando di scuola come bersaglio dell’azione, non mi riferisco soltanto all’istituzione in se stessa, ma anche, se non soprattutto, a quella potenzialmente straordinaria interazione di studenti, docenti, saperi e conoscenze che rappresenta la fucina del futuro e la biblioteca del passato. C’è una voluta retorica in questa definizione, perché come “post” (per riprendere il termine di cui sopra) avverto la necessità di ribadire ruolo e munus della scuola.

È una non-valorizzazione della scuola pensare che la stessa non possa avere una sua presenza culturale sul territorio, come è fortemente riduttivo ritenere che gli studenti siano semplici esecutori e il percorso scolastico una preparazione al lavoro senza altri grilli per la testa. In questa logica il materiale prodotto dalla scuola e nella scuola è una semplice esercitazione e non può avere valore di per sé ma solo in relazione a quello che sarà, o si vorrebbe che fosse, un lavoro ed un lavoro redditizio. Questo messaggio è diseducativo perché poco gratificante nei confronti dello studente che non trova nella scuola la possibilità di esprimersi e di scoprire le proprie potenzialità di modo che l’unica motivazione allo studio finisce in tanti casi con l’essere la competitività pura e semplice. Illich ha intitolato il suo libro più famoso per l’appunto “Descolarizzare la società” indicando nella competitività e nella selettività una tentazione per la scuola e per la società con il conseguente rischio dell’emarginazione . L’inclusione che rimane oggi un obiettivo fondamentale nell’educazione del preadolescente passa necessariamente attraverso la possibilità offertagli dalla scuola di esprimere se stesso e di aprirsi al mondo sviluppando le proprie potenzialità. Diceva Erickson che un alunno non può trovare stimolo e motivazione alla scrittura personale da un compito scolastico che scriverà per un solo lettore che per di più lo correggerà.

La vernice grigia stesa sul muro è come lo straccio che cancella i segni,le tracce delle esercitazioni in aula. Sottesa a questa operazione c’è una convinzione, quella che nulla di ciò che viene fatto a scuola abbia valore fuori dalle sue mura. Ritorna la metafora: ciò che viene fatto a scuola da ragazzi non può avere valore autonomo al di fuori di essa,ma proprio per il fatto di essere destinata ad uscire dai suoi confini perde significato all’interno della scuola. Da un lato c’è una prima constatazione da fare; la testimonianza di un anniversario importante come i cinquant’anni dalla Liberazione è ridotta ad un disegno di gruppo, rimovibile e sostituibile, comunque passato ed originato da una delle tante ricorrenze che si possono individuare anno per anno per proporre un lavoro da fare a scuola. Da un altro lato sembra che così il murales non debba avere valore nemmeno dal punto di vista didattico in quanto si collocherebbe in un ambito non scolastico.

Mi chiedo a questo punto perché la cura meticolosa che la scuola pone nella conservazione di annate di compiti in classe non debba applicarsi anche ad altre tipologie di esercitazioni che in quanto svolte a scuola assumono comunque la funzione di insegnamento-apprendimento: è questo è anche il caso del murales; il progetto può essere più o meno riuscito: conservarne la registrazione è compito della scuola, quale che sia il modo scelto per la documentazione futura. Pensare che l’unica registrazione debba limitarsi ai compiti in classe canonici fa a pugni nell’era digitale con la trasformazione del concetto di testo operata dai media e conseguentemente dell’idea dibiblioteca. Forse non si ritiene il murales lavoro scolastico in quanto lavoro di classe eseguito da alunni che svolgevano compiti diversi e come tale non è ascrivibile ad un singolo alunno ? Ma allora che cosa ci fanno nella scuola i discorsi sul cooperative learning, sulla peer education ecc. … Non entro in una discussione che sarebbe lunga e per di più poco da “post-scolastico” e tanto da pamphlet di un operatore scolastico; mi limito a ricordare un grande testo del XII° sec.: il “Didascalicon” di Ugo di San Vittore. San Vittore era una piccola congregazione sacerdotale posta alla periferia di Parigi che aveva adottato una regola comune di vita. Era cresciuta intorno all’eremo di Guglielmo di Champeaux, dotto insegnante; da essa sarebbe poi nata l’Università di Parigi. Nel suo moderno commento al Didascalicon, intitolato Nella vigna del testo Ivan Illich riassume i suggerimenti forniti da Ugo di San Vittore al lettore per avviarsi sulla strada della sapienza: “Primo, egli non deve disprezzare alcun sapere né alcuno scritto; secondo, non deve vergognarsi di imparare da chiunque; terzo, una volta acquisito il sapere, non per questo deve trattare qualcuno dall’alto in basso”.

Ma c’è un’altra considerazione da fare. Talvolta con certe azioni si dicono più cose di quelle che si vorrebbe dire e talvolta si affidano ad esse certi significati latenti che non si ha il coraggio di affrontare vis à vis. Nel messaggio dato con la cancellazione ci sono altri contenuti che forse non erano voluti, laddove il “forse” è più frutto della speranza che della convinzione. Cancellare il murales, all’inizio dell’anno, ricorda le operazioni di pulizia domestica: togliere le tracce di chi ha occupato prima la stanza e buttare via tutto ciò che non serve. Aggiungere poi a questa operazione la motivazione che essa obbedisce a ragioni di sicurezza, carica l’azione di altri significati non certamente piacevoli. L’immagine della pulizia indica che di certe cose ce ne si può disfare, che hanno fatto il loro tempo (magari anche la Resistenza secondo i nuovi aspiranti storici!). Qual è il primo lavoro da fare a scuola per la sua messa in sicurezza ? La cancellazione del murales. E l’ironia su questo paradosso è immediata, ma anche triste perché la cancellazione avviene nel silenzio comunicativo ufficiale, ma all’inizio dell’anno scolastico in modo che a tutti sia chiaro il significato dell’azione: l’affermazione di un potere dell’amministrazione comunale nei confronti della scuola.

Da ultimo, senza soffermarsi troppo sul tema in questione, sento che la cancellazione del murale costituisce una crepa inferta nella cultura della memoria: una lacerazione avvertita emotivamente se passo ad una valutazione complessiva di quello che definirei “un triste episodio”. Non so fino a che punto questo sentimento possa essere fatto proprio da coloro che non sono stati direttamente coinvolti nella realizzazione e nella “vita” del murales, ma è indubbio che nella cancellazione è implicito un messaggio di svalutazione della cultura della memoria che non è la memoria di una cultura come spartiacque di un gruppo etnico, bensì piuttosto la contestualizzazione della cultura nella storia e nello sviluppo di una civiltà. È un tema che mi sta molto a cuore su cui sto lavorando proprio in quanto parkinsoniano alle prese con le incertezze di una memoria breve viepiù lacunosa ed a rischio di… estinzione.

Affido l’argomento alla riflessione personale ed a quella materia viva, tutta da scoprire, che è l’educazione alla cittadinanza. Per parte mia riassumo il concetto di cultura della memoria in tre immagini. La prima è l’immagine che ciascun di noi può crearsi nell’ascolto dei testimoni storici (sia che si tratti di un ascolto diretto sia che si tratti di una lettura di scritti lasciati a memoria dei fatti): è l’immagine che percepirete concretamente nelle testimonianze raccolte nel filmato di Tosi. La seconda immagine, con un tuffo nel passato ed un salto di campo, mi è suggerita da alcuni teologi medioevali. Siamo nel secolo di Didascalicon quando non era difficile trovare per la definizione dianima il termine mente. La mente-anima è costituita, dicevano questi teologi, da tre facoltà: la memoria, l’intelletto e la volontà . La memoria lega la mente al passato, l’intelletto la situa nel presente, la volontà la proietta in avanti . L’anima umana è modellata sulla SS. Trinità e le sue tre facoltà agiscono in unità. Senza la memoria del passato non c’è intelligenza possibile, ma non c’è neppure speranza di futuro.

La terza immagine è tratta dal libro “Evoluzione creatrice” di Henri Bergson (1859-1941): “Noi pensiamo, è vero, con una piccola parte del nostro passato; ma è con la totalità del nostro passato, ivi compresa la curvatura originaria della nostra anima, che noi desideriamo, vogliamo, agiamo” (pag.15). Questo pensare, questa consapevolezza, non è un concetto astruso, pane di filosofi che non hanno alcunché da fare: è un abito mentale che prende vita ogni giorno in tante storie personali, anche di preadolescenti come i ragazzi delle medie. Sono storie personali arricchite da ricordi ed insegnamenti, ricordi di scuola ma anche di vita ed insegnamenti di vita oltre che di scuola in un intreccio che diviene educazione ovvero e-ducere (tirar fuori) a condizione che non cessi di alimentarsi a quella umanità che scopriamo in noi imparando a riconoscerla negli altri.

Siamo esseri umani perché sappiamo ricordare, citando Malone, e siamo società umana perché vogliamo ricordare.

Franco Bellingeri

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