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Le 150 ore alla scuola del “Macello” nel ricordo di chi le ha frequentate

In principio fu la legge 20 maggio 1970, n. 300, meglio conosciuta come statuto dei lavoratori, una delle normative principali della Repubblica Italiana in tema di diritto al lavoro.

Il successivo contratto dei metalmeccanici del 1972 riconosce agli operai l’utilizzo di un monte ore annue (150) non per la formazione professionale, già prevista, ma per il miglioramento e l’autonomia culturale attraverso il recupero scolastico della licenza media.

Le finalità del Sindacato, evidentemente, non erano quelle di determinare le basi per una “appropriazione privata” del sapere, ma di una conquista collettiva mirata a rafforzare il concetto di “classe”.

Scritto e disegnato per i bambini, ma anche per quegli adulti che dei bambini conservano ancora la freschezza e la gioia di imparare, questo libro si chiama semplicemente “Libro di Storia”.  Molti si stupiranno, intanto è a fumetti come i giornalini. So solo che la Storia non è un nobile genere letterario, come credevano gli Antichi, ma un campo di battaglia tra opposte classi e ideologie, e in battaglia ognuno si sceglie le armi che può. Il fumetto oggi mi pare un’arma efficace.  

Pietro, siciliano di Burgio (AG), nato nel ’57, è arrivato a Sesto nel ’73: aveva 16 anni.

“Per mantenermi avevo iniziato a lavorare come aiuto muratore, un lavoro molto duro, a volte massacrante. Quando ne ebbi l’opportunità, cambiai lavoro, facendo l’imbianchino.  Venni assunto dalla Ditta Fammilume; 8/10 ore al giorno: quando tornavo a casa alla sera avevo braccia e gambe “rotte”, ma il lavoro mi piaceva!

Mi confrontavo con me stesso: iniziavo e terminavo un lavoro. E quando contemplavo a fine giornata quello che avevo realizzato, per me era una profonda soddisfazione.

Nel ’75, a 18 anni, mi sono sposato e un paio di anni dopo entrai in SIAI, prima nel reparto di verniciatura e, dopo un anno, al montaggio.

Erano gli anni del compromesso storico, del terrorismo, degli scioperi quasi settimanali (a volte con blocchi del Sempione).

Il Movimento Sindacale in fabbrica era molto forte: feci da subito la tessera della CGIL.

In fabbrica si scriveva un giornalino che veniva stampato a Varese, nella sede del PCI: io andavo a ritirare le copie per la distribuzione.

Poi venne rapito Moro: a volte negli spogliatoi della SIAI venivano trovati manifestini delle Brigate Rosse.

Probabilmente i sindacalisti erano tutti conosciuti e controllati: tornando una sera da Varese venni fermato dai Carabinieri. Da allora 2 o 3 volte alla settimana ero fermato e controllato.

La nostra scuola era la fabbrica.

Malgrado la scolarizzazione bassa siamo diventati tutti operai specializzati, magari con l’aiuto degli anziani, perché non eravamo stupidi, ma ci mancava la teoria, ci mancava l’italiano; se uno prendeva parola in fabbrica doveva avere un poco di formazione se no ne era intimorito.

La mia generazione aveva bisogno delle 150 ore”.

Le 150 ore rappresentarono un investimento contrattuale con cui i lavoratori scambiavano salario per un processo di emancipazione individuale e collettivo. 

Seconda, prevedibile obiezione: un libro di Storia deve essere obiettivo e questo non lo è. Ma quanti libri di Storia sono obiettivi? Molti, se per obiettività s’intende essere documentati (e questo lo è). Nessuno, se per obiettività s’intende invece l’impossibile prodotto sterilizzato di un osservatore neutrale, al di sopra delle parti e delle classi.

“Anche per garantirmi la possibilità di trasferirmi in altri reparti, almeno allora pensavo questo, cominciai a frequentare le 150 ore.

Si usciva dalla fabbrica alle 16, ci si recava alla scuola del “Macello” (ora scuola secondaria di I grado) e lì si rimaneva fino alle 19.

Però c’era anche un secondo turno, dalle 19 alle 22 credo.

Per quasi tre mesi io e altri sestesi conosciuti in quella scuola, tutti i giorni di quell’inverno/primavera del ’81/82, abbiamo frequentato il corso”.

La scuola italiana, per quasi un secolo, quando non aveva prodotto “dei quasi analfabeti”, aveva cercato di produrre subalterni e consenso acritico.

La storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quella dei tentativi degli sfruttati per liberarsi diventano qui una fiaba, ma seria e rigorosa.

“Nelle classi si studiava Italiano, Storia, Matematica e Inglese, argomenti di politica, sindacali, ma soprattutto si dava spazio alle esperienze e alle storie individuali: esperienze di vita, storia d’emigrazione e di vita di fabbrica, raccontate dalla parte di chi le viveva in prima persona.”

Ciò significò che alle storie collettive di una astratta “entità” chiamata classe si sostituirono le storie personali, all’ideologia i vissuti reali.

“Ricordo due professori/esse di allora: Caielli e Fabbrocino che insegnavano a Sesto e a Somma, in due classi di 16/18 partecipanti di 20, 30, 40 anni.

Venivano distribuiti fogli ricavati da un ciclostile presente a scuola, fogli ricavati forse da uno/due libri di testo; quello di Storia mi pare di ricordare che fosse a fumetti.

Il Preside era il prof. Mamante Rabozzi: all’inizio del corso si era presentato spiegando le finalità delle 150 ore e ringraziando per la nostra disponibilità e per l’impegno.

Una volta alla settimana veniva in classe un sindacalista, da Vergiate, che ci spiegava alcune cose: per esempio, come leggere e comprendere una busta paga.

Ogni ora, una pausa di 15 minuti per andare ai bagni o per fumarsi una sigaretta.

Ricordo di un bidello, Giovanni, immigrato dalla Sicilia come me, che per tre volte a settimana, portava un pane pugliese caldo, olio, aglio, pomodoro e basilico e del vino con cui si festeggiava!

Alla fine del corso ci fu un esame: un colloquio con i professori; dopo due o tre giorni mi hanno comunicato che avevo superato l’esame e ottenuto la licenza media.

Io allora ero in 2a categoria e da contratto dopo 12/18 mesi sono salito in 3a, grazie alle competenze lavorative che avevo sviluppato.

A cosa è servito frequentare il corso? Sono onesto: nel mio caso, a livello professionale, a nulla.

Per il mio amico, Enzo Dionisio, che aveva bisogno della licenza media per accedere a corsi di scuola superiori, rappresentò la base per migliorare se stesso e realizzarsi nel proprio lavoro. 

Non era una scuola nel vero senso della parola, ma un luogo per socializzare e per integrarsi (voglio ricordare che anche a Sesto, fino a pochi anni prima, non era facile per un giovane immigrato dal sud trovare qualcuno che gli affittasse una camera o un piccolo appartamento) e soprattutto uno strumento per analizzare e comprendere la società in cui si viveva”.

Confesso di essere molto curioso di sapere quale sarà l’esito di questo libro. Non quello commerciale s’intende, ma l’esito vero: la sua riuscita come strumento educativo.

Ma, soprattutto, vorrei proprio che a questo libro non fosse riservata la sorte malinconica di una strenna di sinistra, riservata ai figli dei miei amici intellettuali più o meno militanti.

I bambini delle borgate romane e dei vicoli napoletani, i figli degli operai immigrati a Torino (e a Sesto!), quelli che hanno tanta difficoltà ad esprimersi, hanno più diritto di chiunque altro ad avere questo libro tra le mani: non per banale populismo, ma perché qui si racconta una storia che è la loro.  Gianni Sofri

2 commenti

  • Armando Lorenzini

    Un articolo molto bello su un libro che mi piacerebbe leggere. In quei brani che hai riportato, c’è la testimonianza di prima mano, commossa e riconoscente, di chi ha vissuto quell’esperienza di scuola/educazione civica che trovo rivoluzionaria e che va giustamente ricordata. Grazie per avermela fatta conoscere e a voi per averla realizzata.

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