#raccontaloaInsiemeperSesto

Il racconto dalla ‘prima linea’ del dr. Davide Gottardello, medico anestesista all’Ospedale di Busto

Non si possono fare proposte civili e concrete se non si da ascolto a chi, in questo perdurante stato di emergenza,  vive dall’interno situazioni di disagio conclamato: siano essi medici, infermieri, insegnanti, operai, imprenditori, commercianti.         

Diamo quindi voce, tramite intervista, al racconto dei cittadini sestesi che vorranno condividere con noi problemi, speranze, possibili soluzioni alle criticità quotidiane.

A fine febbraio, da un giorno all’altro, cambia tutto.

Da fine febbraio il reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale di Busto Arsizio ha cambiato fisionomia e attività. Da un giorno all’altro ci siamo dovuti convertire in Rianimazione COVID. Abbiamo sospeso tutte le altre attività di sala operatoria e terapia del dolore e ci siamo completamente dedicati all’emergenza COVID 19. Prima la ricerca disperata di nuovi posti letto e ventilatori, l’accoglienza dei primi pazienti dalla bergamasca, poi i trasferimenti dei “nostri” pazienti intubati, quando eravamo in overbooking, l’età dei ricoverati via via più giovane, gli studi per capire la migliore ventilazione o le terapie più o meno sperimentali. Settimane di profonda rivoluzione ed evoluzione.

Il momento più difficile vissuto in ospedale?

Più di uno sicuramente…ricordo un venerdì notte particolarmente impegnativo. Era circa metà marzo. Avevamo appena esaurito i posti letto nella seconda terapia intensiva approntata per l’occorrenza in una settimana e si stava attrezzando l’ala adiacente per creare un ambiente subintensivo per pazienti meno gravi. Era quasi tutto pronto quando alle 19 arriva la richiesta di ricovero di un paziente intubato da Gallarate…in Lombardia i posti erano già esauriti! Cosa fare? I letti c’erano, i monitor anche, …e i respiratori? No. Però ci sono quelli delle sale operatorie. “Ecco portiamoli nelle stanze” e così, da quel momento in poi è iniziato il mio turno con due infermieri, ignari di cosa li avrebbe aspettati, e la coordinatrice infermieristica presente fino alle 2 di notte (ma in ospedale dal mattino alle 8) indaffarata a trasportare i respiratori e a distribuirci il materiale che ci sarebbe servito. Quella notte abbiamo ricoverato altri tre pazienti, l’ultimo alle 5 del mattino quando ormai camminavamo dentro e fuori da quelle stanze come zombie avvolti nelle tute per biocontenimento. Questa sicuramente è stato il momento per me fisicamente più duro.

E dal punto di vista emotivo?

..dover intubare un mio coetaneo che purtroppo è ancora in prognosi riservata. Ma non sono stati meno pesanti i momenti del colloquio telefonico con i famigliari: si sentiva l’ansia e la trepidazione nel ricevere notizie migliori dalla telefonata precedente, ma purtroppo, spesso, questa attesa veniva delusa. Non sembra mai di trovare le parole o il tono giusti per comunicare la realtà senza togliere la giusta speranza e per dimostrare vicinanza senza neanche una stretta di mano.

La fase 2: cosa fare adesso?

Anche adesso, in fase 2, però, non è semplice, a dirla tutta. Abbiamo chiuso le due rianimazioni aggiuntive, si rischia di abbassare la guardia e di commettere errori che possono mettere a rischio i sanitari o creare piccoli outbreak in reparti “non covid”: quanto è corretto riaprire delle normali attività ospedaliere e chirurgiche? Dobbiamo stare pronti a una seconda ondata, ma che entità avrà?

Se si fanno scelte sbagliate ora, potrebbero crearsi problemi peggiori di quelli che abbiamo superato nei mesi scorsi.

Si sta concretizzando quello che temevo fin dall’inizio: in assenza di dati epidemiologici certi, mancano le basi per affrontare razionalmente la riapertura. E così si “apre” per necessità più che per “fine pericolo”, e si dà adito a ciascun opinionista di dare il proprio giudizio politico-sociologico-economico…tutti temi sacrosanti. ma vanno trattati con rispetto.

Cosa insegna questa esperienza tragica alla medicina pubblica?

Secondo me, il grosso problema è stato quello di aver trascurato nelle fasi iniziali il ruolo della medicina del territorio che invece avrebbe aiutato tantissimo a mappare la diffusione dei contagi, a ridurli e a far capire il significato dell’isolamento sociale che non si esaurisce nello slogan #IORESTOACASA.

Infatti ora, che non possiamo più stare a casa, dobbiamo imparare come muoverci e a convivere col virus per i prossimi mesi.

La medicina del territorio deve recuperare il suo ruolo di prossimità alle persone e alle famiglie. Questa esigenza era già evidente prima del COVID, quando gli ospedali avevano i Pronto Soccorso intasati da codici bianchi e verdi gestibili a domicilio, con le conseguenti ricadute dovute a lunghi stazionamenti in pronto soccorso, sensazione di abbandono, rivalse medico legali…Questo stress test ha messo in luce i punti deboli del sistema sanitario: smantellamento del ruolo dei medici di medicina generale, chiusura di posti letto, tagli al personale, scarsa meritocrazia e troppa burocrazia che porta i più intraprendenti a cercare maggiori soddisfazioni nel privato.

Un‘ultima considerazione sul ruolo dei medici?

Si, una considerazione personale, più di parte. Ora ci si è  accorti del ruolo degli anestesisti rianimatori in un ospedale: senza di loro gli ospedali si fermano letteralmente. E perché tanta carenza? Perché non se li tengono stretti se hanno un significato strategico sul tema sicurezza, ambito organizzativo, attività chirurgiche (che per le aziende significa produzione)?

Non siamo eroi, ma ci meritiamo di essere trattati meglio!

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