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Se qualcuno volesse cercare un senso all’Europa senza confini

Conosco Mara da quando, poco oltre la boa dei suoi vent’anni, ha prestato come volontaria il suo tempo alla scuola di italiano per stranieri gestita dall’associazione Cittadini del Mondo. Imbastivamo improbabili lezioni serali per platee eterogenee di lavoratori, qualche ricongiungimento parentale; un minestrone di facce stanche e sguardi straniti, mani abituate a disegnare ideogrammi, altre a scrivere da sinistra verso destra, alcune non avevano scritto mai. Si partiva alle venti e trenta muniti del miglior programma e si finiva tre minuti dopo a recitare a soggetto, dividendo la classe in gruppi, sotttogruppi, individui, a seconda del grado di preparazione e delle necessità. Al termine della nostra prima lezione insieme mi chiese perché fossi lì, anche io come volontario. Credo si attendesse qualche volo pindarico sull’integrazione o cose così, le risposi invece che davo loro il diritto alla rabbia, perché potessero capire quando qualcuno li avrebbe offesi per il colore della pelle o per il vestito, e il dovere della risposta. Mi fissò in silenzio per un paio di secondi o tre, seria, poi agitando l’indice davanti a sè esclamò convinta “mi sembra giusto”. Fu forse per questo che non mi stupii, qualche tempo dopo, quando la vidi mettere in riga uno studente del Bangladesh, che la redarguiva serio di non avere ancora marito e figli alla sua età. Mara, se fosse un oggetto, sarebbe un chiodo: per la magrezza, per il carattere, per la tenacia.
Mara Leontini da allora non ha smesso di guardare il mondo con occhi curiosi e di cercarlo. Qui, e altrove. Si è laureata in scienze dell’educazione ed ha proseguito in scienze pedagogiche, lavorando sul nostro territorio, a contatto la sfera dei giovani, a cui ancora afferisce: gli esclusi dalla scuola, quelli con problemi di relazione nella corte dei pari, persone che fanno fatica a trovare il loro posto nel mondo, o anche semplicemente in famiglia. Da molti mesi vive in Svezia, nella cittadina di Borås, dove segue un progetto Erasmus Plus, dedicato ai giovani sotto i tren’anni. Ecco, se qualcuno volesse cercare un senso all’Europa senza confini, dovrebbe indagare qui: nella casa in affitto in cui risuona l’italiano, il francese, il fiammingo, lo spagnolo, il greco e il tedesco, una macedonia di persone che hanno messo da parte le proprie diversità per collaborare ed imparare come si affronta il disagio sociale e l’integrazione al tempo del mondo globalizzato in un Paese del Grande Nord. Di giorno si parla una lingua neutra, ma di notte si sogna nella propria. Borås conta sessantamila anime nel sud della Scandinavia, una città di medie dimensioni per terre praticamente disabitate, gli stessi abitanti di un quartiere della periferia di Napoli, o di Milano: ma a differenza del deserto sociale a cui siamo tristemente assuefatti a queste latitudini, loro vantano non meno di 12 centri di aggregazione, “e c’è un bell’impegno, perché anche qui la pressione migratoria si fa sentire, soprattutto siriani e somali, ed è il problema che ha affiancato mali storici come l’alcolismo e l’alto tasso di suicidi”
Il razzismo, la diffidenza, chiedo. “A tonnellate, gli svedesi sono come te li immagini: freddi, distanti, silenziosi. Rifuggono il contatto fisico. Sugli autobus non ci si siede di fianco a persone sconosciute, piuttosto si viaggia in piedi, e l’impatto di comunità che hanno altri codici di comportamento, che si aggregano spontaneamente, creda diffidenza”. Ma non è solo un problema degli altri, “L’ho provato anche io sulla mia pelle. Quando in Italia è scoppiato il CoronaVirus, io non rientravo da mesi, non potevo essere un veicolo di contagio, eppure sono stata isolata, ghettizzata. Io e gli altri italiani del progetto. Trenta giorni di ostracismo quasi totale, ma non solo da parte degli svedesi: ad esempio, un iraniano mi chiese cosa ci facessi a scuola, come mi permettessi”. Poi? “Poi è arrivato anche qui, ed è calato il sipario. Adesso so cosa significa essere discriminati, nella pratica. Vuol dire avere l’angoscia sullo zerbino di casa”.
A proposito di CoronaVirus, come è possibile che la Svezia abbia deciso di non attuare nessuna chiusura? “La cosa che mi ha maggiormente colpita è il senso di reciproca fiducia ed appartenenza tra i cittadini e lo Stato. Il Governo ha deciso di non attuare nessuna chiusura per non colpire l’economia, sapendo di potere contare sul senso di responsabilità delle persone e sull’attuazione di misure di distanziamento a titolo personale; dall’altro lato, i cittadini hanno fiducia delle decisioni prese. Certo, a conti fatti non è stata una strategia vincente, ad oggi si contano oltre 52.000 casi dichiarati, quindi sono molti di più, e con l’arrivo dell’estate, quando il sole si dimentica di tramontare e la gente passa molto tempo all’aperto, può solo peggiorare . Ma anche in questo, le istituzioni vengono viste come una guida, non come un totem da abbattere. È un senso di comunità fortissimo, lo stesso che offre gratuitamente corsi di lingua svedese a chiunque viva in questo Paese, anche in via transitoria, come me. Se sei qui, devi parlare la lingua di qui, e lo Stato – la comunità- provvede. Mette a disposizione risorse, spazi ed insegnanti. Il principio è che, anche nelle differenze, nessuno deve essere escluso.

Tanto semplice da sembrare quasi impossibile, qui.
E il futuro? Sorride, dice “ovunque ci sia bisogno di aiutare, di sentirsi utile, un principio di comunità. Ovunque non ci sia una scrivania ad attendermi. Trovo interessanti le persone, danno valore al nostro tempo. Non è il posto a fare la differenza, è come lo guardi. E come ti senti tu.”
Ci salutiamo, accendo la TV. Lo spazio di informazione del mediastream mi riporta ad una realtà diversa, istintivamente penso ai confini tra gli Stati e quelli nel cuore di tante persone.
Mara, per fortuna, non sei sola.

Gente di Sesto Calende di cui andare orgogliosa.

È tutto qui.

Quando le cronache ci parlano di giovani che espatriano per studio o per lavoro molti si chiedono perché lo fanno. Se ne vanno dopo aver bussato a mille porte senza ricevere un’offerta di lavoro decente o emigrano per cogliere al volo opportunità che promettono brillanti carriere o, più intensamente, se ne vanno a cercare un mondo con occhi curiosi? Diamo voce ai giovani Sestesi senza confini.

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